Non poteva avere un esito diverso.
La scommessa di Pascal Lamy di siglare un accordo dopo sette logoranti anni di negoziato appariva una missione impossibile; troppi i punti ancora aperti e troppa la distanza fra gli annunci e le proposte concrete. Stanotte, leggendo le dichiarazioni dei ministri accorsi a Ginevra e impegnati in questa maratona da nove giorni, sembra di essere tornati indietro al 24 luglio 2006, quando andò in scena un copione identico a quello odierno. Anche allora occorreva più flessibilità e flessibilità non ci fu; anche allora gli Stati Uniti accusarono India e Cina di essere venute a Ginevra senza proposte serie che fornissero agli esportatori americani qualcosa sufficiente a contraccambiare le offerte USA in materia di spesa agricola (offerte che in verità nessuno vide). Questa volta il punto in cui la corazzata si è incagliata è un punto meno noto degli altri, apparentemente poco significativo: la richiesta - da sempre sostenuta dl G33 - di definire un sistema di salvaguardia che possa permettere ai paesi in via di sviluppo di aumentare i dazi sui prodotti importati nel caso si verifichino repentini aumenti delle importazioni. Tanto per capirci quello che tre anni fa chiedevano a gran voce i nostri attuali ministri per bloccare le importazioni cinesi di tessili e abbigliamento e che in effetti si fece perché nel protocollo di annessione della Cina al WTO erano stati previsti. Ma la maggioranza dei PVS non ha questa possibilità perché non venne concordata nel vecchio round (l'Uruguay Round).
Ma anche se si fosse trovato una accordo su questo punto ne rimanevano altri, come quello legato al cotone (molto delicato per gli USA che forse lo hanno voluto evitare), o quello delle indicazioni geografiche tanto caro a noi europei, che avrebbero richiesto più tempo di quello disponibile.
Susan C. Schwab, la caponegoziatrice statunitense, è stata molto tagliente nelle dichiarazioni finali: "5 dei 7 paesi del gruppo che aveva la leadership dei negoziati erano preparati ad accettare la proposta del direttore Lamy", puntando il dito contro i due paesi dissenzienti: Cina ed India. Kamal Nath, il ministro indiano ha ribattuto che gli USA difendono interessi finanziari mentre lui deve difendere milioni di contadini.
Tecnicamente il dissidio viene dal fatto che occorre stabilire una percentuale di aumento delle esportazioni a partire dalla quale far scattare l'aumento dei dazi per far rallentare le importazioni ed occorre stabilire di quanto i dazi possono aumentare. Su questo crinale gli USA hanno ritenuto che le richieste fossero eccessive e potessero essere usate a scopi protezionistici.
Ma dietro il batti e ribatti dei comunicati stampa si conferma quanto abbiamo ripetuto sino alla noia: sette anni fa si diede avvio a un negoziato che solo pochi paesi volevano ma che tutti accettarono sotto il ricatto della necessità di un segnale forte dopo l'11 settembre. Venne formalmente lanciato al fine di equilibrare le regole attuali che favoriscono chi queste regole le ha scritte. Non ha mai tenuto fede a questo impegno e ciascun paese ha lottato per tirare la coperta dalla propria parte.
Ora la coperta è rotta, qualcuno ha commentato che dopo sette anni occorre ripartire da zero, se così fosse sarebbe davvero una buona notizia perché significherebbe aver compreso che i tempi sono mutati e serve un nuovo approccio. Senza cooperazione il mondo non ha futuro, senza solidarietà le società si sfaldano inesorabilmente. Serve una classe dirigente che capisca che il benessere e la sicurezza non si costruiscono "contro gli altri", ma anzi solo "gli altri" possono aiutarci.
Non servono più le sfide sui ring di Ginevra, le risse aiutano a sfogare ma non a risolvere i problemi che ciascuno ogni giorno affronta e per miliardi di persone sono sfide di sopravvivenza, anche nell'occidente dei ricchi.
Roberto Meregalli (roberto@beati.org) Beati i costruttori di pace – Tradewatch.it
Risponde Tino Bedin
In Italia il ministro leghista all'agricoltura Zaia gioisce, perché pensa che il fallimento salverà i prodotti italiani. La Coldiretti ha però calcolato che il mancato accordo su lotta alle falsificazione dell´agroalimentare nostrano costerà 50 miliardi di euro. Più in generale quello a cui i membri dell'Organizzazione Mondiale del Commercio rinunciano è un insieme che rappresenta un risparmio (in termini di dazi doganali non versati) di oltre 130 miliardi per l'economia mondiale - 35 per i prodotti agricoli, 95 per quelli industriali - a cui i paesi in via di sviluppo avrebbero contribuito per un terzo, ma di cui avrebbero ottenuto i due terzi dei benefici.
Comunque l'Agenda di Doha per lo sviluppo fu lanciata nella capitale del Qatar nell'ormai lontano novembre del 2001.In questi anni tutto è cambiato, come si è visto anche nel recente G8 in Giappone. Nuovi Paesi sono venuti alla ribalta; Pechino e Delhi sono diventate capitali di imperi economici; l'America ha gradualmente perso smalto. I rapporti di forza sono cambiati e la crisi finanziaria in atto ha solo reso la fase più carica di insidie.
Ed in atto c'è anche la crisi alimentare, che tocca uno dei temi fin dall'inizio più sensibili del negoziato per il commercio mondiale. Così mentre si compiace del nulla di fatto, il ministro Zaia dimentica che non è casuale il fatto che proprio Cina e India, che pur hanno ampiamente beneficiato in termini di crescita economica della globalizzazione di questi anni, non hanno accettato di mettere in discussione la propria produzione agricola, i loro «milioni di contadini poveri».
Così come non casuale la posizione della Francia, che, per bocca del suo ministro dell'agricoltura Michel Barnier, ha avanzato dubbi sulla Omc e si è chiesto se sia lunica sede adatta per discutere di accordi commerciali su agricoltura e beni alimentari. Anche da questa constatazione di potrebbe ripartire.
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