Politica italiana
IN DIALOGO TRA CITTADINI

Padova, 3 febbraio 2008

Rileggendo Platone nella politica italiana
Atene, Italia: 2500 anni dopo
La partecipazione dei cittadini è l'unica arma contro gli avventurieri della politica

Nella contingenza odierna forse non ci fa male riprendere in mano un passo scritto quasi 2500 anni fa da un filosofo ateniese di nome Platone. La riflessione sulle sue ultime battute ci potrebbe indicare una via d’uscita da questa palude.
Da giovane provai dentro di me un desiderio analogo a quello di molti altri miei coetanei: meditavo di accostarmi alla vita pubblica, quando fossi diventato padrone di me stesso.
In quel tempo la situazione politica della mia città era quella che vi descrivo: il governo, osteggiato da molti, venne esautorato e passò nelle mani di cinquantun cittadini che diventarono i governatori dello Stato; undici erano a capo del centro cittadino, dieci del Pireo, e tutti addetti alla tutela dello scambio economico e degli affari pubblici; oltre a questi cinquantuno c’erano anche trenta magistrati, ben più importanti, con pieni poteri. Tra costoro c’erano anche dei miei parenti ed alcuni amici, i quali mi incitavano a prender parte alla vita pubblica entro breve tempo, come se fosse un’attività fatta per me. Io allora credevo, e data l’età non è assolutamente strano, che costoro, col loro governo, avrebbero affrancato la città dall’ingiustizia additandole una giusta condotta, e intanto osservavo attentamente che cosa stavano facendo.
Però notai che costoro in breve tempo fecero sembrare oro il governo precedente; fra l’altro un giorno mandarono, insieme con altri, un mio amico più vecchio di me, Socrate, uomo ch’io non ho dubbi essere il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per mandarlo a morte, facendo sì che in questo modo egli diventasse, volente o nolente, loro complice; ma Socrate si rifiutò, preferendo affrontare qualsiasi rischio piuttosto che diventare complice di un’azione disonorevole.
Di fronte a ciò, assistendo a tutto questo e ad altri rilevanti crimini, indignato, mi allontanai dalle bassezze di quel periodo.
Poco tempo dopo il governo dei Trenta tiranni fu rovesciato e cadde quella dittatura.
Nuovamente, anche se con minor intensità, mi prese il desiderio di impegnarmi nell’attività politica.
Ma, anche in quello sconvolgimento, accaddero molti episodi che mi indignarono; non è strano, infatti, che in una rivoluzione le vendette degli avversari politici siano molto pesanti; anche se c’è da dire che i fuorusciti, ritornando in città, furono abbastanza moderati.
Ma poi alcuni potenti avviarono un processo contro quel mio amico, Socrate, accusandolo del delitto più infame e più estraneo al suo animo: lo accusarono d’empietà, lo condannarono e lo mandarono a morte; proprio lui che non aveva voluto partecipare a quello scellerato arresto di un amico di quelli che erano stati cacciati fuori città, mentre costoro subivano la sciagura dell’esilio.
Allora ritornai ad osservare i fatti, le leggi, i costumi e gli uomini che si stavano dedicando alla vita politica, e, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile amministrare lo Stato, restandone onesti.
Non si poteva far niente se non ci si procacciava degli amici e dei compari fidati; ma non era semplice trovarne, mentre gli usi e i costumi degli avi si dissolvevano, e per di più non era possibile farsene di nuovi con facilità. Le leggi scritte e i costumi si corrompevano con una velocità così sbalorditiva, che io, che una volta aspiravo a prender parte alla vita pubblica, osservando queste cose e lo sconvolgimento che c’era tutto intorno, rimasi disorientato.
Continuai però ad osservare ciò che succedeva per appurare se ci potessero essere degli sviluppi positivi, soprattutto nel governo dello Stato, e per passare all'azione aspettavo delle circostanze più favorevoli; ma alla fine mi accorsi che tutte le città di allora erano amministrate male (infatti le loro leggi erano insanabili, a meno che una meravigliosa congiunzione, rappresentata da preparazione e buona fortuna, non giungesse a cambiare tale situazione), e fui costretto a lodare solo la retta filosofia e a dire che solo essa è in grado di far vedere ciò che è giusto negli affari pubblici e in quelli privati.
Dunque le sciagure delle generazioni umane non sarebbero mai cessate se al potere politico non fossero giunti veri e autentici filosofi, oppure se i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, dei veri filosofi.

Si tratta di libera traduzione personale. Un saluto cordiale ed un augurio.

Armando Girotti

Risponde Tino Bedin

Disarmante la rilettura di Platone! E forse una delle cause della situazione è proprio il senso di impotenza che porta ad aspettare. Platone ha aspettato, ha aspettato, ha aspettato. Era tragicamente rischioso non aspettare, come gli aveva dimostrato la sorte dell'amico Socrate; però il ritiro nella filosofia è quello che gli avventurieri politici puntano ad ottenere dai cittadini. Invece la effettiva partecipazione e il costante incalzare dell'opinione pubblica è l'unica arma contro l'oligarchia.

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di-591
9 febbraio 2008
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Tino Bedin