Sviluppo del Veneto

 
IN DIALOGO TRA CITTADINI

Padova, 3 maggio 2005

L'idea di uno sviluppo basato sulla piccola impresa
È la mentalità dei veneti che... intasa le strade
Ma il cattolicesimo sociale ha fatto qui le più interessanti esperienze

Lo dico da sempre: il Veneto è una grande zona industriale. I camion sono quasi più numerosi delle automobili sulle nostre strade a grande traffico, e anche nelle stradine di campagna ormai è impossibile non imbattersi in capannoni e mezzi pesanti.
Il problema nasce a monte. Il territorio del Veneto rurale è stato "svenduto" in fretta e furia, quasi per liberarsi di un'eredità che qui evidentemente non piace più: più di 70 anni di storia del 900 in cui i veneti sono sempre stati lo stereotipo del contadino, del povero ignorante. Il "miracolo del Nord Est" e il proliferare delle sue migliaia e migliaia di piccole medie e grandi imprese, è diventato quasi una bandiera del riscatto di una popolazione con il risultato che se prima i veneti erano presi in giro come dei poveri incolti contadini, ora lo sono come il "popolo degli schei", come persone in grado di pensare solo ad arricchirsi e spendere.
Quindi non mi stupisce che il "problema dei trasporti" sia molto sentito in una terra che ormai non vive più di "terra" ma di industria, e quindi di infrastrutture.
Il primo problema di un veneto oggi non è "cosa ci guadagno sul lungo periodo, in termini di salute, paesaggio, qualità della vita", ma "cossa ghe guadagno, desso, subito...quanti schei?". Un problema culturale, l'altra faccia della medaglia di quell'imprenditorialità diffusa che ormai i veneti sbandierano come segno della loro quasi calvinista "civiltà del lavoro e dell'impresa".
Non volete le strade e l'inquinamento? Costruiamo zone industriali e artigianali in settori ben precisi, e facciamo dei piani regolatori "dittatoriali" (nel senso dell'inderogabilità e dell'inflessibilità) che costringano le aziene a "raccogliersi" in poli, e magari incentiviamo lo spostamento di molte piccole-medie imprese dal territorio rurale dove hanno avuto origine, a questi "poli di zona". Va da sé che questi poli andrebbero dotati di infrastrutture di trasporto efficienti e accessi veloci alle strade di maggior portata, ma anche di ferrovie per esempio... (il vecchio trenino della zona industriale di Padova insegna).
Non sono un urbanista, ma a naso mi sembra che il problema nasca tutto da qui:
1) cultura degli "schei" (e menefreghismo per tutto ciò che non genera schei o addirittura "toglie" schei);
1b) mancata consapevolezza che gli schei non comprano la salute e la qualità dell'aria;
2) diffusione capillare e selvaggia delle imprese (e quindi dei trasporti pesanti) su tutto il territorio, aree rurali e aree urbane comprese.
Senza cambiare questi due punti, non credo che un ponte in più o uno in meno sia il vero problema.
Il problema del Veneto, è il desiderio di arricchirsi personalmente, non di creare benessere, o di vivere in una società del benessere... In poche parole, il veneto è possessivo (basta pensare alle cause più svariate che molti veneti hanno sempre in corso col vicino per 10 centimetri di terra di confine), egoista, e senza coscienza sociale. Il volontariato in Veneto è forte, ma secondo me (e ne sono sempre stato convinto) come lo sfogo dell'anima cattolica-bigotta del veneto medio che nella sua ipocrisia vive fuori di ogni coscienza morale e poi si "compra" la pace interiore e una nuova coscienza con le "buone azioni". Il volontario veneto spesso parla della sua azione come di un martirio, non con gioia, come se dovesse quindi "espiare" una colpa...

Un meridionale

Risponde Tino Bedin

Non sono d'accordo. Non sono d'accordo con il lettore (che si definisce "io sono terrone, e queste cose le noto di più di un veneto") perché la rappresentazione che egli fa non è vera.
All'inizio del Novecento il cattolicesimo sociale ha avuto in Veneto le sue più forti espressioni: leghe bianche, cooperative rurali, casse rurali, settimali diocesani che avevano (hanno) il "popolo" nella loro testata: "La Difesa del popolo", "La Vita del popolo", "L'Amico del popolo". Si è formata allora una coscienza dei diritti, una coscienza di popolo che alla prima occasione di libertà di è manifestata con il suo carattere personalista e solidarista. La prima occasione di libertà è stata l'eccesionale combinazione della fine della ditttatura fascista, della consunzione della classe dominante agraria, della presenza politica della Democrazia cristiana con la dedizione di centinaia di amministratori locali che si erano formati proprio al cattolicesimo sociale delle Leghe bianche. La "rivoluzione delle famiglie" contro il grande capitale agrario (che sfruttava proprio le famiglie e non solo le persone) non poteva che portare alll'impresa familiare, all'azienda personale, in cui convivevano (convivono) vita individuale, soloidarietà familiare, progetti per i figli. Questa è la storia del Veneto. Questa è la rivoluzione del Veneto.
Certo questa rivoluzione ha oggi dei costi che occorre affrontare e pagare. Ma chi si meraviglia della "fabbrica diffusa", chi si scandalizza della "campagna abitata", potrebbe con la stessa veemenza scandalizzarsi delle concentrazioni urbane che sono avvenute altrove con città da milioni di abitanti, nelle quali il livello do inquinamento, la lentezza del traffico, la disaffezione sociale non sono certo inferiori che in Veneto.
Non mi consolo per questo e devo fare la mia parte perché i limiti dello sviluppo del Veneto siano compresi e superati. Ma non rinnego la "rivoluzione delle famiglie" fatta dalla generazione che mi ha preceduto, anche per consentire alla generazione che mi segue di farne un'altra, sempre con gli stessi protagonisti.

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3 maggio 2005
di-454
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Tino Bedin