IN DIALOGO TRA CITTADINI |
Milano, 10 aprile 2001 | |
Tragica la loro condizione di dipendenza Per le donne in Afghanistan intervenga l'Onu Per molte la pazzia è l'unica via di fuga |
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Madhu, il governo dell'Afghanistan, ha
scatenato una guerra contro le donne. Da quando i Talibani hanno preso il potere nel 1996,
le donne hanno dovuto portare il burqua e sono state picchiate e lapidate in pubblico
perché non portavano gli abiti dovuti, anche se questo significava semplicemente non
coprire gli occhi nella maniera dovuta. Una donna è stata picchiata a morte da una folla
di fondamentalisti irati per aver mostrato casualmente un braccio mentre guidava. Un'altra
è stata lapidata a morte per aver cercato di lasciare il paese con un uomo con cui non
era imparentata. Le donne non hanno il permesso di lavorare e nemmeno di uscire all'aperto in pubblico senza un parente maschio; professioniste come docenti, traduttrici, dottoresse, avvocatesse, artiste e scrittrici sono state costrette a lasciare il lavoro e chiuse nelle loro case. Le abitazioni in cui è presente una donna devono avere le finestre oscurate con la vernice in modo che non sia vista dall'esterno. Devono portare calzature silenziose in modo da non essere mai sentite. Le donne vivono temendo per la loro vita che potrebbero perdere per la minima infrazione. Dato che non possono lavorare, coloro che non hanno parenti maschi o marito muoiono di fame o elemosinano nelle strade, anche se in possesso di laurea. La depressione sta diventando così diffusa da raggiungere livelli di emergenza. Non c'è modo, in una società retta a tal punto dalla legge islamica, di conoscere la percentuale di suicidi con sicurezza, ma chi lavora nel paese stima che la percentuale di suicidi fra le donne - che non possono trovare cure adatte per la loro profonda depressione e si toglierebbero la vita pur di non vivere in quelle condizioni - sia aumentata significativamente. Le cure mediche per le donne sono quasi del tutto assenti. In uno dei rari ospedali per donne un giornalista ha trovato sui letti corpi immobili, quasi del tutto privi di vita, avvolti nei burqua, privi della voglia di parlare, mangiare o fare altro, a consumarsi lentamente. Altre donne sono impazzite e sono state viste rannicchiate in un angolo, a dondolarsi di continuo o in lacrime, la maggior parte di loro terrorizzate. Un dottore ha considerato l'idea, una volta esaurite le poche medicine disponibili, di lasciare queste donne di fronte alla residenza presidenziale per protesta. Siamo al punto in cui l'espressione "violazioni dei diritti umani" è adeguata a descrivere la realtà. I mariti hanno potere di vita e di morte sulle loro parenti donne, in particolare sulle loro mogli, ma la folla impazzita ha altrettanto diritto di lapidare o picchiare una donna, spesso fino alla morte, per aver esposto pochi centimetri di pelle o nell'idea di aver ricevuto una incomprensibile offesa. Le donne hanno goduto di una relativa libertà, della possibilità di lavorare, di vestire più o meno come volevano, potevano guidare e apparire in pubblico da sole fino al 1996. La velocità della transizione è la principale ragione della depressione e dei suicidi; donne che erano educatrici o medici, o semplicemente abituate alle più elementari libertà sono ora duramente limitate e trattate come esseri subumani nel nome del fondamentalismo islamico. Non si tratta della loro tradizione o "culture", ma di qualcosa di estraneo, ed è estremo anche per quelle culture dove il fondamentalismo è la regola. Nel firmare questa petizione, concordiamo nel considerare l'attuale trattamento delle donne in Afghanistan totalmente inaccettabile e meritevole di un'azione da parte delle Nazioni Unite. La situazione in Afghanistan non sarà tollerata. I diritti delle donne non sono in alcun posto un problema secondario ed è inaccettabile per le donne nel 2000 essere trattate come subumani e come una proprietà. L'eguaglianza e la decenza umana sono un diritto non una libertà, che uno viva in Afghanistan o altrove. |
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Monica Zoppè ed altre 217 firme |
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Risponde Tino Bedin Si tratta di un tema tragicamente "vecchio", sul quale ho già richiamato l'attenzione del ministro degli Esteri italiano con una mia interrogazione, cui Lamberto Dini ha risposto in termini condivisibili, ma l'azione politica internazionale non riesce a trovare il consenso per risposte adeguate. In queste settimane la questione sollevata dall'appello è stata rilanciata dall'informazione internazionale per la chiusura di un ospedale umanitario diretto da un italiano. Bisogna però porre con forza a livello di Nazioni Unite la questione, sapendo che la soluzione non è semplice: forme di coercizione esterna determinano spesso un indebolimento della popolazione ed un rafforzamento dei regimi. |
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12
aprile 2001 di-043 |
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al senatore Tino Bedin |