Caro senatore Bedin,
la pandemia sta rallentando e si moltiplicano le spinte sia economiche che politiche per il "ritorno alla normalità". Devo confessarle che la parola "normalità" mi fa paura proprio per l'esperienza che stiamo ancora vivendo, tutti e specialmente i più anziani fra noi e quelli che li affiancano nella fragilità della vecchiaia.
Gli anziani e i loro familiari sono i più colpiti sia dalla pandemia sia dalle misure messe in atto per arginarla. Questo non è successo per la cattiva sorte o per la cattiva volontà (almeno nella maggioranza dei casi), ma perché così era organizzata la nostra comunità (non solo locale o nazionale, ma almeno europea). Il "ritorno alla normalità" significherebbe tornare là dove eravamo; là dove la vecchiaia è una esperienza individuale e se diventa fragile resta una questione individuale, da risolvere in famiglia (dove e finché si può) o in casa di riposo.
Ricordo bene che per molte settimane nella pandemia il presidente del Veneto Luca Zaia e la sua amministrazione regionale hanno sostenuto che la residenzialità dell'anziano rappresenta un settore esterno rispetto al servizio sociosanitario regionale, negando di avere una qualche responsabilità per chi non era all'ospedale (a volte perché non ci riusciva): il punto cruciale erano allora le case di riposo, ma la mancata presa in carico specifica riguardava tutta la residenzialità, anche quella familiare. In questa posizione il Veneto non era isolato in Italia: altre regioni hanno sostenuto la stessa tesi.
Poi l'esplosione della pandemia contro la vecchiaia ha costretto a cambiare politica.
Ecco una situazione in cui non bisognerà assolutamente "tornare alla normalità". Credo sia risultato evidente la rete dei servizi per le persone anziane, in particolare quelle fragili, dovrà considerare centrale la residenzialità (familiare o protetta): è attorno al luogo di vita dell'anziano che va organizzata la risposta ai bisogni, sia quelli cronici sia quelli acuti.
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I segnali che cominciano ad indicare il "ritorno alla normalità" sembrano purtroppo indirizzare il Veneto verso il passato: insomma Rosalba Sandano ha motivo di nutrire timori. La giunta regionale del Veneto ha deciso di istituire un fondo integrativo per i lavoratori degli ospedali che hanno affrontato la crisi di questi mesi: decisione molto opportuna. Il provvedimento non ha per nulla preso in considerazione i dipendenti della rete delle case di riposo. Eppure, gli operatori veneti delle case di riposo hanno anch'essi manifestato una grande professionalità e una grande generosità: doti che non solo hanno salvaguardato migliaia di anziani fragili, ma hanno anche evitato il collasso delle strutture ospedaliere. L'esclusione, mantenuta anche dopo le garbate ma ferme rimostranze dell'Uripa del Veneto, conferma che per il presidente Luca Zaia e la sua amministrazione regionale continua a considerare il sistema della residenzialità per anziani (una parte rilevante del quale è di natura pubblica) come estraneo alla Regione, che continua quindi a non occuparsene. Esattamente come all'inizio della pandemia.
Ma ora la "normalità" è un'altra.
Per restare al personale: è chiaro a chiunque non voglia chiudere gli occhi che gli standard di operatori non può essere più quello di prima, perché l'organizzazione richiesta dalla prevenzione dei contagi e dalla salvaguardia dell'integrità psicologia degli ospiti delle case di riposo comporta più personale e anche qualifiche diverse. Se la regione Veneto non interviene, metterà una "tassa Covid" sulle famiglie che dovranno sostenere con le rette i nuovi costi.
Perché le famiglie continuano ad avere bisogno di un supporto quando la fragilità dell'anziano richiede una gestione complessa e la struttura familiare non può farvi fronte. La residenzialità, insomma, è quasi sempre un bisogno primario per la vita delle famiglie: non inserirla a pieno titolo nel sistema sociosanitario del Veneto diventa una negazione della cittadinanza.
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