Alle 20.50 esco da scuola dopo una giornata di scrutini. Necessariamente passo davanti alla Questura di Padova e vedo una corriera bianca: non ci faccio molto caso. Proprio a fianco della corriera la mia vecchia vespa si spegne. Cerco di rimetterla in moto e lancio lo sguardo dentro al mezzo e vedo, seduti, una ventina di ragazzi di colore. Uno guarda il mio gesticolare e forse si chiede cosa stessi facendo, gli altri erano seduti con lo sguardo perso dal finestrino sulla nostra città.
Nessuna guardia padana, nessuna manifestazione contro il loro arrivo, nessun urlo "tornatevene a casa vostra", nessun assessore, nessun sindaco ad accoglierli. Solo qualcuno delle associazioni, qualche poliziotto e il silenzio di una città distratta, che non vede arrivare chi, fino a qualche minuto prima, attraverso le sue istituzioni, aveva detto di non volerne sapere.
Alzo gli occhi e accenno un saluto al ragazzo che mi guardava e questo accenna da un sorriso. La faccia stanca dopo chissà quante ore di viaggio in bus e quanti giorni passati in mare. Magari sta ancora pensando ai compagni morti, alla fortuna di essere comunque con la sua vita nella speranza di trovarne una di nuova. Assieme lui, tutti gli altri, sono probabilmente in attesa della loro destinazione. In una struttura di qualche associazione o cooperativa in provincia? In qualche appartamento della città? Nessuno lo sa. Penso che la destinazione temporanea non nasconda il pensiero su cosa ne sarà di loro, quale il loro futuro, il loro destino.
Sì, dalla destinazione al destino. Migranti, rifugiati, clandestini, ma soprattutto persone con il loro bagaglio di sofferenza e di sogni che nessun becero potrà rubare, cancellare. Forse i nostri governanti che pongono giustamente il problema dell'immigrazione rifiutando l'accoglienza, non hanno il coraggio di guardarli in volto per strappare loro un sorriso: potrebbero perdere consenso. Certamente questi ragazzi, tutti africani, erano inconsapevoli di essere al centro di grandi interessi: da una parte, una serie di farabutti che sfruttano la loro sofferenza per arricchirsi, dall'altra meschini politicanti che li usano per mero interesse di propaganda politica.
Alla fine ho messo in moto la mia vespa e velocemente me ne sono andato. Probabile che non rivedrò più quel ragazzo e quel sorriso. Spero per lui e per tutti gli altri un destino meno amaro di quello dal quale sono partiti.
Commenta Tino Bedin
Oggi 13 giugno a Padova è la Festa del Santo. Non solo qui, visto che sant'Antonio di Padova è fra i santi più "popolari" al mondo, anche nei paesi dai quali molti migranti provengono e dove i cristiani sono una minoranza, quasi sempre sopportata, molto spesso intimidita e perseguitata. Nel nome di questo santo universale, lascio il commento ad un passo del messaggio che per questa festa è stato scritto da mons. Antonio Mattiazzo, arcivescovo di Padova, all'ultimo anno di servizio pastorale.
Quest'anno propongo una riflessione su "Il Pane di Sant'Antonio".
"I poveri li avrete sempre con voi" (Mc 14,7; Mt 26,11) ci ha avvertiti il Signore. E ai suoi discepoli ha detto: "Voi stessi date loro da mangiare" (Mc 8,37). Non è un peccato essere poveri, ma è peccato essere indifferenti ed egoisti.
La globalizzazione, condizione di miseria, conflitti e terrorismo che affliggono alcune Nazioni, spingono molte persone ad abbandonare la loro patria per cercare condizioni più umane di vita. Ricordiamo che Sant'Antonio stesso giunse in Italia come "straniero", imbarcatosi in Africa e approdato in Sicilia dopo un naufragio. La preoccupazione per la sicurezza non dovrebbe escludere la virtù e il dovere dell'umanità e della solidarietà e non far dimenticare le responsabilità e le carenze della cooperazione internazionale.
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