Mentre il Governo italiano preparava e - solo in seguito - faceva approvare dal Parlamento l'invio di armi ai combattenti kurdi, questa settimana, gli operatori di "Un ponte per..." in Iraq assistevano a una mobilitazione straordinaria della società civile irachena negli aiuti umanitari. Scherzando, i nostri partner locali ci dicevano che il governo italiano farebbe meglio a trasferire i vecchi armamenti in disuso allo Stato Islamico, così se si inceppano risparmiano qualche vittima. Ben altro chiedono in questo momento coloro che in Iraq sono più attenti alla salvaguardia dei diritti umani: beni alimentari, acqua, interventi internazionali focalizzati alla protezione di popolazioni a rischio di genocidio, e ponti aerei per portare in zone sicure le minoranze ancora assediate nelle montagne di Sinjar e in altre zone del governatorato di Mosul.
Certamente un ponte aereo di C-130 dell'Esercito Italiano non era necessario per portare a Erbil acqua e biscotti facilmente acquistabili in loco, che appaiono quindi strumentali a giustificare la successiva distribuzione dei kalashnikov. Questa scelta non chiarisce chi svolgerà il lavoro diplomatico per sostenere il dialogo nazionale con i politici iracheni e kurdi, che coinvolga tutti gli attori regionali a partire dall'Iran, e il lavoro di polizia internazionale per fermare traffico di armi e finanziamenti allo Stato Islamico. Né è chiaro al momento chi si adopererà per costruire una forza di interposizione ONU all'altezza dello slogan "Responsabilità di Proteggere", riferito alla popolazione civile, che finora è stato usato dalla NATO come paravento di operazioni di guerra.
Le associazioni del Kurdistan iracheno hanno - come noi - da giugno stravolto le loro attività ordinarie per alleviare le sofferenze degli 800.000 rifugiati interni giunti dal Nord dell'Iraq, che si aggiungono ai 200.000 curdi scappati dalla guerra in Siria. Le ONG che rappresentano le minoranze, come la Yazidi Solidarity League, si affannano per dare anche sostegno morale e politico ad un popolo che sta subendo un vero e proprio genocidio. I volontari delle chiese cristiane, caldei e siriaci, sfornano miglia di pasti al giorno per le famiglie fuggite dalle enclave cristiane della piana di Ninive. Le associazioni di donne denunciano a piena voce i crimini di schiavitù e stupro di cui si è macchiato lo Stato Islamico e sostengono le vittime. Chi lavora e lotta senza armi nel resto del paese non ha visto significativi cambiamenti, e qualche giorno fa un altro operatore umanitario iracheno è stato ucciso da sconosciuti per il proprio attivismo, nella provincia di Dyala: piangiamo anche noi Saad Abdul Wahab Ahmed dell'associazione al-Amal.
Il fondamentalismo e i crimini delle bande armate, che poco o nulla hanno di islamico, sono cresciuti nel paese nell'ultimo decennio in entrambi i fronti: quello sciita con esplicito sostegno del governo di al-Maliki, quello sunnita con un ampio spettro di gruppi di opposizione. Crimini contro i civili sono stati registrati da entrambe le parti, e non possiamo dimenticare che il governo iracheno è stato ripetutamente accusato di crimini di guerra per i propri bombardamenti indiscriminati su quartieri delle città in rivolta, o per l'uccisione extra-giudiziale di prigionieri.
È quindi, ora, necessario lavorare con massima energia a sostegno del processo politico iracheno e del dialogo nazionale, perché il nuovo Primo Ministro al-Abadi cambi corso rispetto al suo compagno di partito al-Maliki, ascoltando non solo le opposizioni ma anche la società civile irachena. Ci stanno provando gli attivisti dell'Iraqi Social Forum, composto da decine di associazioni, sindacati e reti di tutto il paese, che stanno impostando un piano strategico di partecipazione della società civile al dialogo nazionale, e di lotta alla discriminazione tra tutte le comunità linguistiche e religiose. Hanno lanciato in questi giorni campagne come "Ministri senza quote" contro la pianificazione della politica su basi etniche. Chiedono che almeno quattro ministri vengano scelti in base al merito e alle proprie conoscenze della materia, non su basi settarie. È il primo tentativo di mettere in discussione il sistema di quote non scritto ma varato e consolidato dalle autorità USA dell'occupazione, che gravano ancora sulla politica irachena. Seguiamo con attenzione e sosteniamo queste iniziative, perché solo da qui può nascere un altro Iraq.
Associazione "Un ponte per..."
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Nella sua lettera del 9 agosto a Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, Papa Francesco ribadisce la sua "preoccupazione, e quella di tutta la Chiesa cattolica, per la sofferenza intollerabile di coloro che desiderano solo vivere in pace, armonia e libertà nella terra dei loro antenati" e ritiene che "gli attacchi violenti che stanno dilagando lungo il nord dell'Iraq non possono non risvegliare le coscienze di tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad azioni concrete di solidarietà, per proteggere quanti sono colpiti o minacciati dalla violenza e per assicurare l'assistenza necessaria e urgente alle tante persone sfollate, come anche il loro ritorno sicuro alle loro città e alle loro case". Subito dopo ricorda che "e tragiche esperienze del ventesimo secolo, e la più elementare comprensione della dignità umana, costringe la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme ed i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose".
Prima della guerra, prima di nuove guerre, vengono dunque "le norme e i meccanismi del diritto internazionale".
La distribuzione di armi deve avvenire cioè nell'ambito di azioni coordinate con gli Stati coinvolti, perché la storia recente ha mostrato - e probabilmente non insegnato - che le armi restano anche dopo lo scopo per cui erano state consegnate e prima poi finiscono per riprendere a sparare, dando origine a nuovi conflitti che hanno richiesto nuove armi.
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