In questi giorni nei quali stiamo scorrendo le liste dei candidati, di tutti i partiti, alle elezioni europee e a quelle amministrative, mi preme condividere una riflessione: l’Europa e anche il più piccolo dei nostri Comuni non sono mai stati così vicini.
Noi italiani, infatti, abbiamo imparato a conoscere il cosiddetto "Patto di Stabilità”: l'abbiamo catalogato tra le cose necessarie, per far quadrare i conti, ma l'abbiamo anche associato ad un meccanismo burocratico complicato che costringe le pubbliche amministrazioni a tagliare le spese, quindi i servizi, ed ad aumentare le entrate. Basta seguire qualsiasi trasmissione televisiva o un qualsiasi articolo che tratti temi economici e, prima o poi, qualcuno finisce per dire o scrivere che non si può fare questo o quello a causa del Patto di Stabilità. A livello legislativo e ancora di più a livello comunicativo il messaggio che è passato, in questi anni, è che il Patto di Stabilità è imposto dall'Unione Europea.
L'equivoco, che più di qualcuno evita di spiegare perché fa comodo addebitare i paradossi italiani all'Unione Europea, nasce da un’omonimia cavalcata ad arte: esistono due Patti di Stabilità. C'è, infatti, il "Patto di Stabilità", legato all'Unione Europea che contiene degli obiettivi, difficili da raggiungere, ma semplici da spiegare: i vincoli europei prevedono che rapporto debito/PIL sia sotto il 60% e rapporto deficit/PIL sia sotto il 3%. E c'è un secondo Patto: "Il Patto di Stabilità Interno", che invece è un meccanismo economico e burocratico inventato dal legislatore e dai tecnici contabili italiani, nel 2002, ai fini di far quadrare i conti della Pubblica Amministrazione.
Non esiste nessuna norma europea che imponga il modo in cui le diverse pubbliche amministrazioni debbano comportarsi per garantire i saldi di finanza pubblica. In Italia si è fatta la scelta, illogica secondo noi, di imporre degli obiettivi di Patto anche agli Enti che, per loro natura, non possono produrre deficit come i Comuni e le Province.
Le attuali norme sul Patto di Stabilità Interno impongono di prevedere, ogni anno, il miglioramento dei saldi: questo significa che si obbligano i Comuni e le Province a produrre degli avanzi di amministrazione. Che fine fanno questi sempre più cospicui avanzi di amministrazione? Diventano delle somme virtuali e inutilizzabili! Il classico cane che si morde la coda!
La domanda a questo punto sorge spontanea: a cosa serve far produrre questi avanzi se poi queste risorse non possono essere utilizzate? Anche in questo caso la risposta è semplice: lo Stato di fatto ha già usato, e sta utilizzando, quella liquidità, attraverso la Tesoreria Unica, per pagare stipendi e pensioni. Si tratta di un paradosso tutto italiano: si obbligano i Sindaci ad aumentare la pressione fiscale, a tagliare i servizi e a ritardare i pagamenti al fine di accumulare liquidità che poi è usata dallo Stato.
Il dramma sta nel fatto che 12 anni di Patto di Stabilità Interno hanno creato una situazione di squilibrio difficilmente risolvibile: da un lato i Comuni che giustamente, prima o poi, pretenderanno di poter spendere i propri avanzi di amministrazione e dall'altro lo Stato che quei soldi li ha già spesi.
Quali possono essere le soluzioni?
Innanzitutto cambiare il nome al Patto di Stabilità Interno proprio per evitare l'equivoco che possa essere confuso con quello previsto dall'Unione Europea; potrebbe essere chiamato "Patto di Convergenza". Così si eviterebbe anche di dare un facile alibi alle forze politiche antieuropeiste che spesso addebitano all'Europa i paradossi creati dal nostro "Patto di stabilità interno".
In secondo luogo si potrebbe pensare un Patto di Convergenza meritocratico che non metta tutti gli enti locali sullo stesso piano, obbligando sia gli enti virtuosi sia i non virtuosi a ridurre la spesa e i saldi ma imponendo dei limiti e l'obbligo alla contrazione delle spese solo per quelli che hanno una spesa storica superiore al proprio fabbisogno standard.
Il Presidente del Consiglio, essendo stato Sindaco fino a 2 mesi fa, conosce i paradossi del Patto di Stabilità Interno ed è a conoscenza di quanta energia positiva potrebbero generare i Comuni se fossero liberati da questo assurdo cappio, se riuscisse a modificare almeno in parte questo meccanismo.L'occasione potrebbe essere data dalla novità che si concretizzerà nel corso dei prossimi mesi: a giugno verranno pubblicati i fabbisogni standard di tutti i comuni delle Regioni a statuto ordinario, si tratta di una novità importante e fondamentale per iniziare a distribuire in modo più equo le risorse e anche per distribuire in modo più meritocratico i sacrifici imposti dalla Spending Review e dal Patto di Stabilità Interno. Questo sarebbe un ottimo impegno per avviare il meglio il semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea.
Marco Stradiotto Segretario PD Metropolitano di Venezia
/
Commenta Tino Bedin
Molto spesso i governi nazionali - non solo quello italiano - si sono "nascosti" dietro l'Unione Europea quando hanno assunto decisioni difficilmente sostenibili con le loro opinioni pubbliche interne. "Ce lo chiede l'Europa" è stata ed è ancora la presunta giustificazione di provvedimenti sui quali - ben che vada - proprio i governi hanno dato il loro contributo ed assenso in sede europea o addirittura - come nel caso italiano dei bilanci dei Comuni - l'Unione Europea nulla aveva detto e nulla ha da dire. Il guaio è che a furia di gridare "All'Europa! All'Europa!" proprio i governi - e i governi di Berlusconi con Bossi in Italia - hanno alimentato un'opinione pubblica che scarica sull'Europa colpe che sono del governo nazionale e che ora potrebbe frenare bruscamente il processo di integrazione continentale sia economico che istituzionale. Se ciò avvenisse alle prossime elezioni per il Parlamento europeo, i governi resterebbero senza alibi, ma sarebbe una magra consolazione per i cittadini che resterebbero ancor più indifesi rispetto alla globalizzazione finanziaria e dei diritti sociali.
|